“Design per il Sociale: strumento strategico, di formazione e sviluppo”, Intervista a Patrizia Scarzella, Architetto e giornalista

  Redazione   Ott 05, 2015   Blog ed Interviste, News, Principale   Commenti disabilitati su “Design per il Sociale: strumento strategico, di formazione e sviluppo”, Intervista a Patrizia Scarzella, Architetto e giornalista

C’è una definizione specifica di Design per il Sociale?

Oggi in uno scenario dove tutto è in divenire e l’innovazione procede in modo fluido e continuo in ogni direzione, definire con dei paletti un ambito disciplinare è impresa impossibile. Diciamo che in termini generali il Design per il Sociale può essere considerato il terreno per produrre innovazione e per esercitare formazione mirata per un futuro sostenibile a beneficio di comunità e gruppi sociali più o meno estesi. Quando in ADI (Associazione per il Disegno Industriale) abbiamo realizzato tre anni fa la mostra Design per il Sociale che ha ufficializzato l’introduzione, finalmente!, di questa sezione all’interno dell’Index che ogni anno seleziona i progetti più innovativi realizzati in Italia, ci siamo trovati a discutere quando e come un progetto potesse essere compreso in questa categoria o no. Insieme alla commissione (di cui fanno parte attualmente oltre a me, Valentina Downey, Roberto Orsi, Antonietta Casini e Gianni Arduini) abbiamo formulato dei criteri generali che permettono, crediamo, una valutazione più oggettiva: tra questi la centralità del design nel progetto, il carattere innovativo dell’intervento, l’impatto sulla comunità di riferimento e sul tessuto sociale, i risultati e l’implementazione nel tempo ecc.  Ma, come ho detto, è un campo ampio, dai contorni cangianti e da sfaccettature insolite, forse ancora da scoprire!

Ci sono poi dei valori che a mio parere dovrebbero essere dati oggi per acquisiti in tutto l’ambito del progetto, non solo quello del design per il sociale, quindi trasversali a tutto il nostro fare progettuale e che sono già ‘valori sociali’ di per sé: tra questi sostenibilità, condivisione, responsabilità sociale (delle aziende ma anche dei progettisti!), promozione di comportamenti eticamente e socialmente positivi…

 Qual è il progetto più importante in cui hai sperimentato il design come strumento formativo?

Per tre anni ho condotto workshop di Design Training e Product Development in Kenya, Thailandia e Filippine (qui coadiuvata da Valentina Downey) nell’ambito di un grande progetto chiamato Networking Our way Out of Poverty per la International Good Shepherd Foundation Onlus.  Si è trattato di un progetto di formazione rivolto a donne artigiane in condizioni di estrema povertà e provenienti spesso da situazioni di ‘human trafficking’, incentrato sulla valorizzazione del potenziale creativo delle donne e su una metodologia appositamente sviluppata che ha permesso a persone spesso senza alcun background culturale e con un’elementare conoscenza delle tecniche di lavorazione (quindi non artigiane di professione) di acquisire i principi base per interagire con materiali, colori, finiture e creare nuovi prodotti prevalentemente tessili, gamme colori,  sperimentare nuovi materiali. Quando si pone la persona al centro del processo creativo, cambiano tutte le regole e i risultati sono sorprendenti facendo sentire le persone protagonisti e non solo meri esecutori. Questo goal – liberare il potenziale creativo delle singole partecipanti ai workshop -era al primo posto  tra gli obiettivi generali da raggiungere: per me è il risultato più significativo, anche se intangibile. Tra i risultati concreti, il progetto ha prodotto collezioni di accessori casa e moda in ogni paese con il marchio ‘Dignity Design‘ per i mercati locali ed esteri, in questi ultimi distribuiti attraverso la rete della Congregazione delle Suore del Buon Pastore nel mondo.

Nel corso di questo progetto ho fotografato molte mani di donne, più che i loro volti, che talvolta  non volevano o potevano mostrare, simbolo della dignità del loro lavoro, della cura, dell’impegno, della dedizione e della volontà di avere una vita migliore.  E’ stata un’esperienza umana, oltre che professionale, straordinaria. Le immagini sono state raccolte nel libro ‘Women Hands’ e sono state soggetto di una mostra a Milano con l’ambizione di trasmettere lo ‘spirito del progetto’ e l’intensità di questa esperienza.

Le grandi organizzazioni internazionali che si occupano di progetti di sviluppo come valutano il design e il suo ruolo strategico?

Ho partecipato di recente (aprile 2015 ndr) a un seminario a Ginevra, presso l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) proprio sul tema del design come strumento strategico e di sviluppo in risposta a situazioni di crisi. Il seminario, il 6°  di una serie di 10 sul tema “Visible or invisible: design in International Organizations”, promossi da Head-Genéve (University of Art and Design) e Hes.So (Haute Ecole Spécialisée de Suisse occidentale), The Graduate Institute Geneve of International  and Development Studies and Civic-City, The Institute for critical research in design, fondato nel 2011 a Zurich da Ruedi Baur, Vera Baur e Imke Plinta) – si intitolava “Diversi approcci per la progettazione in risposta a situazioni di crisi” ed era diretto dal designer italiano Giulio Vinaccia.

Rivolto a professionisti e studenti nel campo della progettazione, le scienze sociali, la politica e la comunicazione, questo seminario ha analizzato vari progetti esemplari realizzati da designer per organizzazioni umanitarie e/o non governative, e presentato progetti sperimentali che sono stati condotti in tutto il mondo con diversi approcci metodologici, di cui si è cercato di valutare la rilevanza in risposta alle diverse problematiche e capire le ragioni dei fallimenti di alcuni progetti e i benefici di ogni esperienza. Le organizzazioni internazionali sempre più riconoscono che il design e il suo approccio possono essere gli strumenti adatti per affrontare problemi di formazione, di strategia, di sviluppo economico in situazioni di emergenza, di povertà, di disagio sociale ma  più in generale per pianificare lo sviluppo all’interno di comunità sociali più o meno estese. Marlen Bakalli, Senior Officer UNIDO (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale) ha spiegato la loro politica di selezione dei progetti di sviluppo che hanno al centro il design tra le sempre più numerose proposte che vengono sottoposte dai governi dei vari paesi. Dopo le analisi per valutare l’impatto del progetto, il realistico piano di sviluppo e il grado d’ innovazione (le cosiddette ‘value chain and innovation analysis’), per i progetti selezionati UNIDO procede alla ricerca e raccolta fondi per dare il sostegno economico necessario alla realizzazione dei progetti.  Interessante in proposito per capire il loro approccio “The creative ecosystem: facilitating the development of creative industries”, un documento pubblicato da UNIDO nel 2015.

A quali progetti di Design per il Sociale stai lavorando?

Ho iniziato a collaborare con ‘Liter of Light’ una Onlus nata nelle Filippine per risolvere un problema di emergenza, la mancanza di elettricità dopo il tifone,  ma ora internazionale che opera con il supporto dell’ONU: portano luce  dove non c’è con un sistema elementare nato con la bottiglia della Pepsi e l’acqua ma ora evoluto con la tecnologia led e mini pannelli solari. E’ una ‘open source’ che tutti possono implementare e che può generare micro business economici locali. Con loro abbiamo realizzato un bel workshop al Politecnico di Torino con gli studenti di eco-design: giovani motivati, appassionati, affascinati da poter lavorare per una ‘open source’, e quindi non per il profitto privato, a un progetto che ha un impatto sociale di grande portata. Qui si intravede davvero una possibile alternativa alle regole del tradizionale sistema economico capitalistico!

E, last but not least, ho dato vita con altri designer a un progetto di formazione a distanza con gli studenti  della scuola di argenteria de Il Nodo Onlus a Phnom Penh in Cambogia, che offre una professione a  giovani che provengono da villaggi poverissimi riportando alla luce un’antica tradizione artigianale khmer pressoché dimenticata.

(a cura di Maria Thorpe) ©osservatoriosocialis.it

 

Comments are closed.