“Il marketing etico è la nuova frontiera del capitalismo”. Intervista ad Alberto Abruzzese, Sociologo

  Redazione   Nov 12, 2014   Blog ed Interviste   0 Comment

Secondo un’indagine dell’Osservatorio Socialis, la credibilità delle informazioni pubblicate sul web avrebbe già superato quella dei media tradizionali e la comunicazione “embedded”, quella cioè direttamente a cura dell’azienda, sarebbe più attendibile di quella generalista.

Secondo lei stiamo andando verso un sistema di comunicazione in cui le testate tradizionali spariranno per lasciare posto a mezzi informativi di Corporate? Oppure rifluiremo verso un modello di trasmissione della notizia più tradizionale?

Un medium nuovo, almeno apparentemente senza tradizioni e storia, gode di una fiducia maggiore di quella di media che nel tempo lungo della loro sovraesposizione pubblica hanno progressivamente usurato la propria credibilità in qualche modo proprio perché “allargati” ad una complessità di attese difficilmente risolvibile sul piano sincronico e diacronico. Oltre al fattore novità – che separa l’utenza innovativa dalle resistenze e diffidenze dell’utenza più’ conservatrice – c’è da considerare: 1. La assai più alta affinità culturale e antropologica tra il web e chi lo usa: in qualche modo chi lo usa lo fa perché crede nel mezzo così tanto da credere anche nei contenuti che esso veicola; 2. Il carattere relazionale e conversativo del web – anche quando funzioni da falsificazione e copertura di messaggi sostanzialmente unidirezionali, centralizzati e verticali – incrementa la fiducia degli utenti, quelli singoli e tanto più quelli che, nel nuovo mezzo percepiscono la possibilità e persino la realizzazione di un’aggregazione neo-comunitaria su obiettivi condivisi; 3. Nel caso specifico dei siti web delle aziende, alla fiducia sul mezzo si aggiunge l’approvazione per la scelta innovativa che esse hanno fatto guadagnando in reputazione e efficienza (reazione tanto più comprensibile se, a relazionarsi con un sito d’azienda, sono soggetti pertinenti, necessariamente interessati a partecipare di un medesimo subsistema). Le vecchie testate scompariranno? Meglio domandarsi se arriveranno a sgretolarsi socialmente i vecchi contenuti professionali e i vecchi soggetti sociali che restano ancora affezionati alle tradizionali piattaforme cartacee e televisive. Tutte le grandi metamorfosi mediatiche – dopo l’accensione di pratiche e teoria ad elevato potenziale di rottura – tendono a riassestare, a resettare il sistema rimediandone ciascun segmento. Si tratta di vedere quanto ciascuno di questi segmenti trovi e sappia trovare, costruire, un concreto riferimento nei rapporti di forza tra rifondazione o riforma o restaurazione di contenuti, modelli e processi.

La reputazione ‘etica’ d’impresa è sempre più rilevante nelle scelte d’acquisto dei consumatori. Si può parlare ormai di un vero e proprio indirizzo di marketing “etico” del prodotto. Lei considera questo dato come un effetto delle nuove campagne di marketing oppure come il segno di una reale, diversa consapevolezza dei cittadini sulla rilevanza dell’etica nell’economia?

Non ho mai ritenuto legittima – teoricamente e politicamente – l’idea che l’impresa sia passata o stia passando ad un’etica della produzione, del prodotto e del consumo. L’unica etica esistente in questo senso coincide perfettamente con la storia della società moderna e post-moderna. Mi pare oltremodo ideologico, e per ciò stesso discutibile (indice di “falsa coscienza”), che oggi – trovando contenuti altri nel gran serraglio delle campagne di marketing e delle loro seduzioni o persuasioni o informazioni – si suggerisca che nel “marketing etico” vi sarebbe “il segno di una reale, diversa consapevolezza dei cittadini sulla rilevanza dell’etica nell’economia”. Sono invece del parere che la volontà di potenza occidentale – ovvero le forme di potere dell’economia nel loro attuale passaggio critico dal capitalismo storico al capitalismo finanziario – tenda a ricavare effetti in tutto diversi. Tenda cioè a realizzare profitti ulteriori (non solo partecipazione e consenso ma lavoro creativo a costo zero) dalla stessa partecipazione etica delle singole persone, illudendole che un investimento etico dal basso riequilibri invece che rafforzarla.

L’Università viene vista come uno dei soggetti meno attivi e meno interessati alla diffusione della cultura della responsabilità sociale d’impresa. Eppure le aziende continuano a guardare al mondo accademico come a un interlocutore determinante per preparare manager consapevoli e sensibili sulla CSR e la sostenibilità ambientale. A parer suo l’università italiana ha le energie e i margini di miglioramento necessari a rispondere a questa domanda di formazione e di coinvolgimento?

In Italia l’università ha fallito – almeno per più di quaranta anni di vita nazionale – ogni suo possibile scopo sociale, quale ne siano stati i responsabili: stato, governi, partiti, istituzioni, classi dirigenti, imprese, sindacati, intellettuali, docenti, professionisti e media. Dato l’assoluto vuoto di progettazione dell’intero sistema/Italia riguardo al suo subsistema scolastico e accademico, le forme di reciproco interesse e collaborazione tra ricerca/formazione e imprese (produzione, lavoro, mercati, innovazioni) sono restate quasi sempre vincolate a rapporti reciprocamente strumentali, di basso profilo o comunque anche quando più consistenti mai in grado di aprire una tradizione e un processo.

Qualsiasi ruolo si volesse assegnare ai programmi universitari – ad esempio, formare appunto “manager consapevoli e sensibili sulla CSR e la sostenibilità ambientale” – non potrebbe mai riparare i delitti culturali perpetrati dai ceti dirigenti tradizionali e massimamente rafforzati dalle ideologie della sinistra e dall’opportunismo delle loro pretese di riforma e di movimento. La pessima influenza della cultura italiana si misura sul fatto che i giovani studenti “contestatari” in anni ancora promettenti continuano – ora in anni di assoluto precariato come questi – a ritenere tra loro inconciliabili formazione del cittadino e impresa, sapere e merci, cultura e economia.  In ultimo: poniamo che un miracolo portasse qualcuno a ritenere di dovere ricostruire – quindi formando formatori – un corpo docente in grado di rispondere alle necessità del presente in termini di contenuti e mezzi, quanti anni ci vorrebbero, se non almeno un decennio e forse addirittura un ventennio, per rifondare l’università? E intanto?

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